CONTINUIAMO COME CONCORDATO LE NOSTRE MEDITAZIONI MENSILI SULLE PARABOLE DELLA MISERICORDIA... BUONA E SANTA LETTURA
ASCOLTIAMO LA PAROLA DEL SIGNORE
DAL VANGELO LUCA (18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.
Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”.
Riflessione sulla Parabola del pubblicano e fariseo (curata da Sergio Angelo seminarista III anno di Teologia)
Questa parabola parla
direttamente al cuore di ognuno di noi. Non sono due persone distinte ma sono
due realtà, che agiscono in noi, sono nostri atteggiamenti, che costantemente
ripercorriamo nella nostra vita. Nei confronti di Dio, verso noi stessi e verso
il prossimo, noi assumiamo a volte l’atteggiamento del fariseo e a volte quello
del pubblicano. Non possiamo perciò giudicare a priori questi due personaggi, dovremmo
prima comprendere che entrambi hanno la valenza di rappresentarci, entrambi
sono atti intrinseci al nostro modo di agire.
Non a caso Gesù si
rivolge a coloro che credono di essere nel giusto. Ignorando la condizione
precaria in cui ognuno di noi vive. Anche chi segue Gesù non è esente da questa
tentazione, anzi la certezza di sentirsi giusti assume delle connotazioni
sottili, sofisticate. Tanti di noi credono di meritarsi l’amore di Dio, perché
buoni Cristiani, perché rispettosi della Legge, assidui frequentatori della S.
Messa, uomini atti al ben pensare. In questi atti ecco affiorare tutta la
nostra superbia, tutta la pretesa di aver guadagnato l’amore di Dio: ”Sì, mi
spetta, sono stato buono”. In quest’ottica l’amore gratuito di Dio diventa
prostituzione, idolatria. Dio ama me, perché sono bravo, mi ama, perché lo
merito. E’ la logica del “do ut des”, la perversione più assoluta di
quell’amore donatoci gratuitamente. Il secondo passo è breve, il disprezzo per
chi quell’amore non lo merita.
“O Dio, ti
ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e
neppure come questo pubblicano”.
Quanti di
noi non hanno pensato questo, quanti nella preghiera hanno assunto
atteggiamento di giudizio, di condanna e quindi di morte? Ecco perché il
fariseo torna a casa non giustificato, egli chiede la morte del fratello e non
di meno quella richiesta è rivolta al Padre. Come può un fratello gioire per la
morte di un altro fratello? Come può pregare il Padre infangando la dignità di
un fratello? A questo siamo soggetti quando preghiamo con intenzione doppia,
falsa, ipocrita.
Il
pubblicano non vuole giustificarsi, non pone innanzi nessun merito, non
aggiunge cuore altezzoso e doppio alla sua miseria; riconosce la povertà dei
suoi atti, l’incoerenza della sua vita, l’impotenza di santificarsi da solo.
Perciò la sua preghiera è vera e autentica; a questa richiesta nessun padre può
rifiutare il perdono. Nella sequela Cristiana non vi è spazio per la
perfettibilità, Dio non ci vuole perfetti; un cuore conscio della propria
miseria aspetta l’Amore gratuito, quell'Amore che gli dà la forza necessaria
per guardare alla propria miseria e risanarla, santificarla.
Per questo
il pubblicano torna giustificato mentre il fariseo no. Ancora una volta Gesù
mette in crisi la logica del mondo. Dio guarda all'uomo, chiunque esso sia, ma
solo chi si denuda come Gesù sulla Croce può abbracciare totalmente l’Amore di
un Dio, che si piega sulla sua miseria e cura le ferite, lava dal peccato. Dio guarda ma non può giustificare chi si copre come Adamo nel
giardino dell’Eden, chi “rivestito” del suo peccato vuol essere in realtà
giudice e dio di se stesso .
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