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lunedì 15 febbraio 2016


ANCORA UN'ALTRA PARABOLA "MISERICORDIOSA" CI ACCOMPAGNA IN QUESTO MESE... BUONA E SANTA LETTURA 





ASCOLTIAMO LA PAROLA DEL SIGNORE 

DAL VANGELO SECONDO MATTEO (18,21-35)

Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi.Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti.Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa».Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. 
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: «Restituisci quello che devi!». Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò».Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: «Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».



Riflessione sulla Parabola PARABOLA DEL SERVO SENZA PIETÀ  (curata da Michele Azzolino seminarista II anno di Teologia)


Si è soliti immaginare che la pietà non sia uno dei requisiti per essere un buon padrone, per mandare avanti un’azienda che fruttifichi capitale in quantità. Si pensa anzi che il pietoso debba essere il servo costretto a chissacchè dal padrone. Eppure anche questa volta Gesù sconvolge i suoi uditori con uno di quei racconti in cui un pezzettino di terra si capovolge per diventare cielo (cfr. Mt 18, 23). Siamo di fronte ad un padrone che condona quasi senza esitare un debito immane al suo servo. Quest’ultimo tuttavia, avendo da parte di un collega un credito esiguo, non conosce tolleranza e fa gettare in prigione il suo debitore. Il padrone, venuto a conoscenza dell’accaduto, sdegnato dà in mano agli aguzzini il suo servo affinché restituisca tutto il dovuto. Salta subito all’occhio l’atteggiamento del servo nei confronti del padrone appena questi gli chiede di condonare il debito. «Prostrato a terra lo supplicava» (Mt 18, 26). È, quello del servo, un atteggiamento tipico di colui che implora, chiede perdono con ogni mezzo possibile. Tuttavia nel prosieguo del racconto non vi è mai alcuna menzione di un’azione che possa far, pur lontanamente, pensare ad un rialzamento. È come se quel servo fosse rimasto per tutto il tempo della parabola con la testa china a rimuginare sui suoi errori. È come se quel servo non si fosse realmente accorto che il padrone gli avesse condonato ogni mancanza. È come se non si fosse accorto di quanta misericordia colma il padrone. Quel servo, lungo tutta la parabola, non ha mai fatto esperienza dell’amore che il padrone stava riversando su di lui. Viene quasi naturale paragonare la vicenda di questo servo con quella del cosiddetto “figliol prodigo”. In quella parabola Gesù inserisce un inciso che dà la svolta a tutta la vicenda. Si dice nel Vangelo di Luca « si levò e andò da suo padre» (Lc 15,20). C’è un movimento repentino di presa di coscienza della propria situazione degenere. C’è un bisogno impellente di riconvertire quella condizione di servo, di redimerla. Non ci si ferma con lo sguardo a guardare in basso, ma anzi ci si protende verso l’alto. Lo sguardo sembra davvero raggiungere le vette più inaudite. Si sente con tutto il corpo il bisogno di sentirsi di nuovo amati da quel Padre che per primo ci ha amati. Non è un caso infatti se protagonista della prima parabola è un servo, mentre protagonista della seconda è un figlio: la vera condizione di colui che riscopre l’Amore di Dio non è quella di chi si sente servo, ma è quella di figlio, di amico, di essere amato (cfr. Gv 15,15). Il bisogno tuttavia di andare verso il Padre non si ferma però soltanto a sé stessi. Se di quell’Amore si fa vera esperienza si sente poi davvero tutta la necessità di riversarlo in chiunque si incontri. Se davvero si fa piena esperienza della misericordia è impossibile poi non ridonarla a quanti te la chiedono. Se si è in festa è impossibile non invitare a festa. Sarebbe un festeggiare in solitudine. È un ossimoro! È solamente con l’altro che posso tendere all’Alto. La vera mancanza quindi del servo senza pietà è quella di non aver incrociato lo sguardo del suo padrone. Avrebbe visto in esso tutto quell’Amore che redime, che dona consapevolezza di essere vivo. E vivo con tutti i tuoi difetti, i tuoi errori le tue mancanze. In quello sguardo avrebbe visto quel sorriso, quell’abbraccio, quelle lacrime, che lasciano senza respiro. E non perché opprimono. Ma perché riempiono talmente tanto il cuore quasi da riempire tutta la gabbia toracica e impedire ai polmoni di gonfiarsi fino al loro dovuto. Quando ci si scopre amati, inevitabilmente si ama. «Perdonàti, perdoniamo» diceva sant’Agostino. Ed è proprio così. Se non c’è esperienza di misericordia, se non c’è incontro con l’amore del Padre, questi non si possono neanche immaginare. Quel «settanta volte sette» (Mt 18,22) con cui si apre il passo evangelico, non è un invito a perdonare. Il perdonare, nella nostra concezione mondana, presuppone che ci sia stato fatto qualche torto. Esso è invece da vedersi come un per-donare. Un donare e donarsi per l’altro. È ancora una volta un invito ad amare. Amare fino a settanta volte sette. L’esperienza più piena che un uomo potrebbe fare è l’arrivare ad amare con tutto l’amore che sa venire da Qualcun altro. Esperienza che può fare solo quando, come il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupery, si rende conto che, pur uguale a migliaia di altre rose, la sua è unica. Gli è stata donata così, con tutte quelle spine che pungono e feriscono,  ma lo rendono capace di amare in maniera incondizionata qualsiasi altra rosa. Quello da avere nei confronti della misericordia è un eterno atteggiamento di gratitudine. Poiché il vero miracolo non è il miracolo in sé ma il saperlo riconoscere e renderne grazie. Il miracolo della tua rosa ha bisogno del perpetuo concime del Grazie! È così davvero con l’altro, non solo con lo sguardo, ma anche fisicamente, si potrà tendere all’Alto. E tendere all’Alto fino a settanta volte sette!

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